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L’Europa perde terreno in termini di PIL Se fino al 2011 circa il PIL europeo era pari a quello USA e la Cina era piuttosto lontana, ora l’UE si trova allo stesso livello dei cinesi e ben distante dagli Stati Uniti. Questo è accaduto perché l’UE dal 2007 ad oggi ha registrato un tasso medio di crescita del +1,6% annuo contro il +4,2% degli USA e il +10,1% della Cina (a prezzi correnti, Grafico A); in tale periodo, quindi, il gap accumulato con gli Stati Uniti è di oltre 70 punti percentuali. Guardando al PIL pro-capite a parità di potere d’acquisto (PPA), quello USA è cresciuto di 7,8 punti percentuali più di quello UE.
Dal 2000 al 2023, il valore aggiunto manifatturiero nella UE è sceso dal 24,2% del totale mondiale al 15,6%, un crollo simile a quanto accaduto negli Stati Uniti (-9,6 punti percentuali nel periodo 2000-2023). La Cina, invece, ha visto una crescita elevatissima della sua quota della manifattura mondiale, passando dal 6,0% del 2000 al 31,4% del 2023.
Tutto ciò ha quindi influito sulla dimensione mondiale dell’UE. Dal 2000 al 2023, infatti, l’UE ha sostanzialmente perso quote di PIL mondiale, espresso in PPA a parità di potere d'acquisto: circa -7 punti percentuali (dal 21,7% al 14,7%), che sono state conquistate dalla Cina (al 18,7% dal 6,6%). A politiche invariate, sulla base delle proiezioni di crescita del FMI, da qui al 2035 l’UE perderebbe altri 2,6 punti di quota di PIL mondiale.
Produttività in rallentamento… La perdita di quote di PIL mondiale, spiegabile con un’erosione della competitività relativa dell’Europa, è dovuta principalmente alla stagnazione della produttività del lavoro. Scomponendo in quattro fattori la crescita del PIL a prezzi costanti (popolazione, occupati, ore lavora- te, produttività), è possibile comprendere da dove derivi il divario accumulato con Stati Uniti e Cina. In Europa la produttività del lavoro si è quasi fermata nel corso degli anni (+0,2% medio annuo nel periodo 2019-2023, dal +0,6% nel 2007-2019 e +1,6% tra 1980 e 2007), tant’è che il PIL negli ultimi anni è stato sostenuto quasi solo dalla dinamica dell’occupazione (Grafico B).
Viceversa, negli Stati Uniti la crescita della produttività è stata il fattore trai- nante che ha sempre sostenuto il PIL (+1,5% circa la media annua dal 1980), insieme ad una dinamica demografica particolarmente positiva che ha con- tribuito per un ulteriore +0,5% negli ultimi anni. In Cina, invece, la produttività è stata il fattore di gran lunga più rilevante dal 1980 a oggi con un contributo medio annuo del +7,9%.
La stagnazione della produttività del lavoro nella UE deriva da un’allocazione inefficiente delle risorse, da un ridotto progresso tecnologico e da minori investimenti rispetto a Cina e Stati Uniti.
… a causa di bassi investimenti In particolare, scomponendo ulteriormente la produttività del lavoro in 4 fattori, nell’ultimo quinquennio, per gli USA gli investimenti in ICT hanno fornito il contributo principale (+0,5% la media annua, Grafico C) alla sua crescita sostenuta. In Europa, invece, il contributo più rilevante deriva dalla “qualità del lavoro”, misurata come qualifica dei lavoratori (+0,3%). Questo fattore è più alto, seppur di poco, di quello degli Stati Uniti e della Cina (entrambe +0,2% di media annua). Quindi, l’Europa ha già i lavoratori necessari ad aumentare la propria produttività, ma una scarsa dinamica degli investimenti, specialmente quelli ad alto contenuto tecnologico, non permette di liberare completamente il potenziale della sua forza lavoro. Infine, la voce residuale di questa scomposizione, che per convenzione chiamiamo Total Factor Productivity, indica il progresso tecnologico o l’efficienza globale del sistema economico. In UE questo fattore frena molto la produttività, al contrario di quanto accade in USA e Cina.
Difatti, tra il 2000 e il 2022, gli investimenti “produttivi” (cioè al netto di quel- li residenziali) nell’UE sono stati sistematicamente inferiori rispetto agli USA – la differenza è stata in media di circa 1,1 punti di PIL l’anno.
Inoltre, negli ultimi anni sono crollati gli investimenti diretti esteri in Euro- pa (IDE), sintomo di una scarsa attrattività del continente. I paesi UE, nel complesso, sono stati la principale destinazione degli IDE fino al 2018: tra il 2010 e il 2018, 365 miliardi di dollari all’anno nella UE, 274 negli USA (circa 90 miliardi in meno, Grafico D) e 128 in Cina (circa 240 miliardi in meno). Nell’ultimo quinquennio, però, con un calo degli IDE di 150 miliardi di dollari annui rispetto al periodo precedente (-44%), l’UE è stata superata dagli USA e avvicinata dalla Cina (a soli -40 miliardi).
Rilanciare ricerca e sviluppo L’UE risulta oggi dietro alla Cina anche per gli investimenti in ricerca e sviluppo rispetto alla dimensione dell’economia. Il gigante asiatico ha speso nel 2021 circa il 2,4% del PIL, contro un totale europeo del 2,3%. Ancora più duro il confronto con gli USA: dal 2000 ad oggi il gap accumulato rispetto agli Stati Uniti ammonta a oltre 17 punti di PIL. Delle prime 20 società al mondo per spesa in R&S, solamente due sono basate in UE, contro 11 statunitensi. Occorre invertire la rotta, con politiche che favoriscano gli investimenti, non lasciando però solamente ai singoli stati l’iniziativa ma tramite una politica industriale veramente europea.
Difatti, anche il primato “intellettuale” dell’UE è a rischio: nel 2019 l’UE deteneva il più alto numero di brevetti registrati al mondo (circa 55mila), superiori agli USA (52mila) e alla Cina (41mila). Quest’ultima però è cresciuta a ritmi impressionanti, visto che il 78% dei suoi brevetti è stato depositato a partire dal 2009. Se questi tassi di crescita venissero mantenuti nei prossimi anni, basterebbero tre anni alla Cina per superare USA e UE.
I bassi investimenti sono dovuti in parte a un generale sottodimensionamento e una bassa capitalizzazione delle imprese europee rispetto agli altri due gran- di blocchi. Tra le prime dieci società per azioni mondiali 6 sono statunitensi e 3 sono cinesi. La prima europea si trova al 25esimo posto. Anche lo scarso dinamismo dei capitali finanziari in UE è un freno alla crescita dimensionale delle imprese e agli investimenti. Basti pensare che il mercato azionario USA nel 2021 era di circa tre volte superiore a quello europeo, contando rispettivamente per il 227% del PIL e l’81%. Il Venture Capital in UE vale solo lo 0,2% del PIL contro lo 0,7% degli USA. È urgente quindi avanzare sulla realizzazione della Capital Markets Union, per dare un nuovo impulso allo sviluppo e all’integrazione dei mercati finanziari europei, rendendoli più attrattivi per le imprese e in particolare facilitando l’accesso a nuovi capitali da parte delle PMI.
Migliorare e completare il mercato unico Parte del gap accumulato con gli USA sulla produttività deriva da una non completa integrazione del mercato a livello europeo. Questo crea degli ostacoli allo scambio di beni e servizi all’interno dell’UE. Secondo alcune stime del FMI le barriere non tariffarie, come la carenza di infrastrutture adeguate ai confini o la mancata armonizzazione di alcune regole, possono aumentare del 44% i costi dei beni manifatturieri e del 110% per i servizi. Per una comparazione alcuni studi hanno calcolato che il peso di queste barriere per il commercio di beni fra stati negli USA valga circa il 13%. Una semplice simulazione del Fondo Monetario calcola che se l’UE riuscisse a diminuire queste barriere al livello degli Stati Uniti, la produttività aumenterebbe del 6,7%.
La mancata armonizzazione delle regole e una sostanziale proliferazione normativa rappresentano un costo molto importante per le imprese europee e un fattore che diminuisce l’attrattività dell’UE come luogo per fare impresa. Il Rapporto Draghi ha indicato che, tra il 2019 e il 2024 l'UE ha approvato circa 13.000 atti, rispetto ai soli 3.500 atti legislativi e alle 2.000 risoluzioni a livello federale negli Stati Uniti. Inoltre, il Consiglio non utilizza adeguatamente le valutazioni di impatto ex ante degli atti legislativi, che potrebbero quindi quantomeno far ripensare alcune norme prima che vengano promulgate.
Abbassare il costo dell’energia Un fattore che influisce negativamente sull’attrattività dell’UE è indubbiamente l’elevato costo dell’energia. Le imprese europee, nel 2024, pagavano in media prezzi del gas naturale 5 volte superiori agli USA (2,19 $/mmbtu contro i 10,96 in UE) e prezzi dell’energia elettrica, nel 2023, del 158% superiori. Le imprese italiane sono ulteriormente svantaggiate: difatti, pagano molto di più per l’elettricità (150 €/MWh a febbraio 2025) rispetto agli altri grandi paesi europei: +42€ rispetto a quelle spagnole, +27€ alle francesi e +12€ a quelle tedesche. Questo rappresenta un indubbio svantaggio competitivo permanente che impatta ed erode la competitività delle imprese europee. L’Europa dovrebbe quindi supportare gli Stati membri nella costruzione di un mix energetico in grado di conciliare tutte le fonti di energia, nelle loro forme progressivamente più decarbonizzate, in un’ottica di piena pluralità e neutralità tecnologica. Oltre a proseguire sulla strada delle rinnovabili, che hanno costi decrescenti negli ultimi anni, sarà rilevante anche sviluppare nuove tecnologie come il nucleare di piccola taglia (Small Modular Reactor e Advanced Modular Reactor) in grado di forni- re energia pulita con costi contenuti6.
Occorrerebbe anche ripensare alcuni meccanismi come ETS e CBAM, che potrebbero comportare importanti svantaggi competitivi per le imprese europee, nonostante il vecchio continente sia già molto più sostenibile degli altri grandi blocchi7. Se si rimuovessero le quote ETS gratuite utilizzate dalle imprese italiane nell’ambito, questo comporterebbe in media un incremento dei costi diretti di produzione del 3%, con picchi del 6% in alcuni settori.