Sta calando la produzione dell’industria italiana, ma non è crisi generalizzata

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La crisi dell’industria non riguarda solo l’Italia ma anche altri paesi europei e gli Stati Uniti, quindi ha carattere internazionale. Inoltre, è caratterizzata da una rilevante eterogeneità settoriale, con alcuni comparti che registrano cali della produzione particolarmente marcati. Ci sono motivi specifici per la difficoltà di tali settori, ai quali si sommano questioni più generali: alcuni di tali problemi potrebbero risolversi nel breve-medio termine, altri sono destinati a durare più a lungo, come il prezzo dell’energia più alto in Italia rispetto ad altri paesi europei e agli USA. Analizzando la performance economica delle imprese italiane industriali lungo una serie di dimensioni e indicatori, lo scenario che emerge è di una crisi di produzione, ma non di valore aggiunto, investimenti ed esportazioni, e neanche di occupazione: insomma, l’industria italiana, nel suo complesso, tiene.

Crisi non solo italiana, eterogenea per settori La flessione in corso della produzione industriale riguarda molte economie europee e colpisce quasi tutti i settori, ma alcuni in modo molto più marcato.

  1. A.          Il crollo della produzione industrialeolungato calo della produzione industriale non è un fenomeno esclusivamente italiano. Nel 2024, la produzione manifatturiera italiana si è contratta del 4,2%, dopo il -1,7% dell’anno precedente: una performance peggiore di Francia (-0,5%) e Spagna (+0,7%), ma meno negativa della Germania (-4,7%). La flessione manifatturiera è quindi diffusa: negli ultimi due anni, solo la Francia nel 2023 e la Spagna nel 2024 mostrano una lieve crescita annua della produzione (Tabella A).


L’attuale crisi dell’industria si caratterizza anche per la forte eterogeneità settoriale. In Italia, l’automotive è il settore più colpito (-22,6% nel 2024), nonostante un 2023 positivo (+7,3%); una contrazione osservabile anche in Francia, Germania e Spagna, seppur di entità minore. Inoltre, il calo è particolarmente marcato in alcuni settori tradizionali legati alla moda, come il tessile (-7,5%), l’abbigliamento (-9,1%) e la pelletteria (-18,0%), che conferma- no le difficoltà già evidenziate nel 2023 (-7,8%, -2,0% e -9,7% rispettivamente) e registrano flessioni più accentuate rispetto alle altre principali economie europee. Anche la metallurgia (-3,9% nel 2024, -4,3% nel 2023) e la lavorazione di metalli (-5,2% nel 2024, -3,0% nel 2023) risultano in contrazione per il secondo anno consecutivo; e così anche i minerali non metalliferi (ceramica, vetro, cemento, gesso, laterizi e calce; -1,0% nel 2024 dopo -11,0% nel 2023), seppur con un calo contenuto rispetto a quello registrato in Francia, Germania e Spagna nel 2024.

Alimentari (+3,1%), altri mezzi di trasporto (+8,4%), carta (+2,1%) e ripara- zioni ed installazioni (+1,5%) crescono in maniera consistente in Italia nel 2024, i primi due con una performance migliore rispetto alle altre maggiori economie europee. Altri comparti mostrano invece segnali di tenuta. La chi- mica, dopo il forte calo del 2023 (-6,7%), evidenzia una quasi stabilizzazione (-0,6%). La farmaceutica (-1,7%) limita le perdite, con una performance migliore rispetto alla Germania, ma una traiettoria opposta rispetto a Francia (+10,8%) e Spagna (+10,7%) che segnano una crescita consistente.

B.          Dinamica della produzione al netto di 3 settori Per mettere a fuoco i motivi della flessione, è utile guardare all’andamento della produzione nell’industria calcolato al netto dei settori in maggiori difficoltà in termini di volumi prodotti (automotive, tessile-abbigliamento, metallurgia-prodotti in metallo). Risulta che, per l’Italia, nel 2024 la flessione è decisamente meno accentuata rispetto a quella del totale manifattura: -1,5% al netto dei 3 settori, rispetto a -4,2%. Allo stesso modo, in Germania si passa a un moderato -2,6% dal -4,7% totale, in Francia a +0,3% da -0,5% (Tabella B).


Dunque, buona parte della flessione in corso della manifattura nelle principali economie europee è da attribuire alla crisi specifica di questi 3 settori industriali. Ma anche il resto della manifattura sta subendo una flessione, sebbene molto meno accentuata. Solo in Spagna, tra le principali economie UE, la produzione manifatturiera è in aumento nel corso del 2024; in tale paese, la produzione cresce a ritmo poco più alto se calcolata al netto dei 3 settori in difficoltà.

I motivi del calo: alcuni spariranno, altri no. La flessione produttiva in corso non nasce da un’unica e semplice causa. Deriva invece dall’intrecciarsi di diversi fattori, alcuni di breve periodo altri più duraturi, alcuni specifici di singoli settori altri più generali. Comprendere questi problemi è cruciale per valutare quanto potrà durare la contrazione della nostra industria.

A.          Crisi dell’Automotive motivi specifici La crisi del settore auto, in Italia e altri paesi UE, non è un fenomeno solo congiunturale, ma ha origini più lontane nel tempo. Il drastico calo del 2024 ha chiaramente alcune radici nella debolezza della domanda, ma anche nelle trasformazioni tecnologiche del settore.

Da tempo, si assiste ad una trasformazione del concetto di mobilità, dando spazio a modelli basati su un utilizzo flessibile e integrato di diverse soluzioni e servizi di mobilità, tra cui il vehicle-sharing, che implicano il superamento della necessità di acquisto e possesso di un’auto. Per gli autoveicoli per uso proprio, anche per soddisfare le nuove esigenze dei consumatori, da un lato si sono progressivamente diffuse nuove tecnologie digitali e di connettività, dall’altro si è ridotta la quota delle “utilitarie” a favore dei “Suv piccoli/ compatti”. Aumentando il contenuto tecnologico e la dimensione degli autoveicoli, molti produttori si sono collocati in una fascia alta di prodotto, con prezzi medi di listino più elevati, puntando a maggiori margini per singola autovettura; una scelta che però è difficilmente perseguibile in tempi di inflazione elevata e redditi reali compressi.

Anche il mercato dell’elettrico, soprattutto in assenza di incentivi, sconta prezzi elevati e notevoli differenziali rispetto ai veicoli a combustione interna, causati in primis dalle batterie che incidono circa per il 40% sul totale dei co- sti dei materiali. Inoltre, la disponibilità ancora limitata delle colonnine per la ricarica non consente di superare il timore diffuso che le auto elettriche non offrano un’autonomia sufficiente. Nel complesso, l’incertezza normativa sui motori a combustione interna e i prezzi elevati, specie per le auto elettriche, su cui pesano anche i ritardi nello sviluppo infrastrutturale, scoraggiano le decisioni di acquisto delle famiglie, che infatti si stanno sempre più orientando sul mercato dell’usato anziché del nuovo.

Ad una domanda debole si accompagnano poi le difficoltà dei Governi nazionali a fornire un supporto pubblico efficace al settore. Per aumentare la quota di auto elettriche, i Governi europei hanno agito per lo più con incentivi all’acquisto, ma dato che la produzione di auto elettriche è principalmente non europea, in tal modo si finisce per supportare in larga parte produzioni estere, non collegate a forniture italiane.

A livello mondiale, il settore auto cinese è diventato negli anni fortemente competitivo. Già primo paese per numero di auto prodotte al mondo prima della pandemia, nel 2023 secondo l’OICA la Cina ha prodotto il 32% del to- tale (58% se si guardano i soli veicoli elettrici, dati UNCTAD3), molto superiore alle auto prodotte nell’Unione Europea (16%, incluso UK) che invece era stata per decenni il leader mondiale del settore. Se fino alla grande crisi finanziaria, nella UE si concentrava circa il 27% della produzione mondiale dei veicoli a motore (circa 18 milioni in media tra il 2004 e il 2007), la Cina ha rapidamente aumentato la propria quota, da circa l’8% nel 2004 (5 milioni di veicoli) al 24% nel 2010 (18 milioni), superando i competitor europei che in quello stesso anno producevano "solo" 17 milioni di veicoli, pari a circa il 22% del totale.

B.          Crisi della moda – motivi specifici Nel post pandemia, dopo una breve e vivace ripresa, il settore ha cominciato a soffrire (lusso incluso) e le imprese della moda (soprattutto quelle più piccole, secondo le indicazioni qualitative raccolte da associazioni del settore) hanno visto una diminuzione verticale degli ordini, merce accantonata nei magazzini e conseguente stallo nella produzione. Fino ad arrivare alla forte contrazione iniziata nel 2° semestre 2023, che non sembra arrestarsi, e che colpisce nel 2024 tutti e tre i settori riconducibili alla moda: la pelletteria, l’abbigliamento, il tessile.

Nel breve termine, i segnali di ripresa restano limitati. Le tensioni geopoliti-che in Medio Oriente e il conflitto tra Russia e Ucraina, insieme al rallenta- mento dell’economia tedesca e alla debolezza dei consumi in Cina, stanno raffreddando mercati chiave per il settore moda. La domanda interna di beni di lusso è prevista rimanere contenuta: l’aumento dei prezzi durante la fase iper-inflazionistica, in particolare per i brand del lusso, combinato agli elevati tassi di risparmio attuali, rischia di allontanare i consumatori “aspirazionali”. Allo stesso tempo, la ripresa in corso dei salari reali e l’inflazione più bassa dovrebbero favorire una lieve ripresa della spesa anche nel settore moda.

In una prospettiva di lungo termine, il settore deve affrontare due sfide principali. La prima, lato offerta, riguarda la necessità di un consolidamento produttivo per superare l’eccessiva frammentazione di un comparto caratterizzato dalla prevalenza di micro, piccole e medie imprese. La seconda sfida, lato domanda, consiste nell’intercettare i potenziali cambiamenti nelle preferenze dei consumatori. In primo luogo, l’invecchiamento della popola- zione implica il superamento di un modello di crescita basato soprattutto sui consumatori più giovani, target usuale del settore moda, e la necessità di riorientarlo per cogliere le esigenze della Silver Generation (over 50), una fascia di popolazione in espansione e con elevata capacità di spesa. Inoltre, una serie di fattori (tra cui una maggiore attenzione per la sostenibilità ambientale e il riutilizzo, o scelte più orientate al rapporto qualità/prezzo) potrebbero alimentare la crescita relativa di segmenti quali il mercato dell’u- sato o delle repliche dei prodotti di alta gamma.

C.          Crisi della Germania - motivi specifici Sulla manifattura europea pesa molto la crisi della Germania (-0,2% il PIL nel 2024, dopo -0,3% nel 2023), che è la prima economia e anche la prima industria del continente (-3,3% la produzione manifatturiera nel 2024). I motivi di questa flessione sono molteplici.

La Germania ha visto negli ultimi anni completamente rovesciato il proprio paradigma produttivo. Era il paese UE con la più elevata dipendenza dal gas russo (più dell’Italia) e il maggior peso dei settori energy intensive sul valore aggiunto totale; per questo sta risentendo più di altri del rincaro dell’energia. Era il paese con le maggiori connessioni economiche con l’Europa dell’Est, particolarmente colpita dal conflitto in Ucraina. Era il paese europeo più esposto verso la Cina in termini di export (6,3% la Germania, 2,6% l’Italia) e ha realizzato ampi surplus commerciali nel decennio scorso; ma non sarà più in grado di farlo in futuro perché la Cina sta profondamente riducendo l’import dai paesi occidentali, sia per ragioni geopolitiche sia perché è diventata un produttore manifatturiero sempre più autonomo. Il sistema produttivo tedesco, inoltre, è quello meno diversificato in Europa, perché molto con- centrato sul settore automotive (20,6% della manifattura, prima della crisi), che è proprio il settore più in crisi.

Difficile che tali criticità si possano risolvere tutte nel breve termine. Avere un’economia tedesca molto debole già da due anni è un problema per l’intera Europa e in particolare per l’industria italiana, visto che rimane il primo mercato di destinazione dei nostri prodotti manufatti.

D.          Costo elevato per l’energia Il costo dell’energia penalizza le imprese italiane: a febbraio 2025 il prezzo dell’elettricità nel nostro paese (PUN) è stato in media pari a 150 euro/mwh, molto più alto dei prezzi sulle altre borse elettriche in Europa, ovvero 128 €/mwh in Germania, 123 in Francia, 108 in Spagna (dati rilevati dal GME). Nell’ultimo anno il prezzo dell’elettricità è aumentato del 44% in Italia, del 49% in Germania, del 34% in Francia e del 30% in Spagna: lungo tali rincari, il livello dei prezzi in Italia si mantiene sempre maggiore che nel resto d’Europa (Grafico A).


Ai livelli di prezzo precedenti il conflitto tra Ucraina e Russia, cioè nel 2018- 2019, i costi energetici (per gas, elettricità, petroliferi, etc.) pesavano per circa il 4,0% del totale dei costi della manifattura italiana. Con il balzo dei prezzi del 2022, questa percentuale è schizzata intorno all’8,0% in Italia, un peso insostenibile per le imprese, mentre in Germania è salita a 7,2% (da 4,0%) e in Francia solo al 4,8% (da 3,9%): quindi lo shock energetico ha penalizzato di più la nostra industria. Poi si era avuta una fase di moderazione dei prezzi energetici nel 2023, ma il rincaro che si sta manifestando per gas e elettricità dai primi mesi del 2024 minaccia di far impennare di nuovo il peso dei costi energetici nei bilanci delle imprese industriali italiane, erodendone la competitività.

E.          Prezzi e tassi alti, Eurozona debole, domanda bassa Una ragione importante per cui l’industria in generale va male, non solo in Italia, è la debolezza dell’economia europea che viene da tre anni di alta inflazione, fin dallo shock energetico del 2022. E viene anche da altrettanti anni di alti tassi di interesse, che sono stati la risposta a quella inflazione elevata. Prezzi e tassi elevati hanno frenato la domanda aggregata in tutta l’Eurozona: basta guardare alla crescita del PIL dei diversi paesi europei per capire che siamo in una fase ciclica negativa. Ciò a causa sia della compressione dei redditi reali, che si è determinata con l’alta inflazione, sia perché i tassi alti avevano proprio l’obiettivo di frenare i consumi e gli investimenti, ovvero la domanda interna, per raffreddare la dinamica di fondo dei prezzi. Se la domanda di beni (sia finali che intermedi) è frenata fin dal 2022, non deve sorprendere che la produzione di beni in Italia e negli altri paesi UE sia risultata in riduzione negli ultimi due anni.

F.           Preferenza per i servizi rispetto ai beni Nell’ultimo quinquennio il comportamento di spesa delle famiglie ha subito cambiamenti significativi. Durante il periodo delle restrizioni sanitarie a causa del Covid (2020), la spesa si è concentrata principalmente sui beni, grazie anche alla possibilità di acquistare online, mentre il consumo di servizi (es. ristorazione e turismo) ha subito un drastico calo. Con la progressiva riapertura di tutte le attività produttive, questa tendenza si è lentamente invertita: le famiglie hanno aumentato, in maniera più o meno repentina a seconda del paese, la quota della spesa destinata ai servizi, a discapito di quella per i beni (2021-2022). Secondo gli ultimi dati disponibili, le quote sono infine tornate su livelli simili a quelli pre-pandemia, pur con differenze tra paesi (Grafico B).


Negli Stati Uniti, le famiglie sono tornate ad allocare circa il 66% dei loro consumi in servizi, avvicinandosi ai livelli pre-pandemia ma con una quota ancora leggermente inferiore (-1,6 punti). Sembrerebbe che l’effetto di recupero per il settore dei servizi si stia esaurendo, e la quota corrispondente, che già prima della pandemia era in leggera diminuzione, potrebbe stabilizzarsi a livelli inferiori rispetto al passato.

In Europa, la quota della spesa per i servizi ha invece più che recuperato i livelli pre-pandemia già a fine 2022 (+0,8 punti), con una certa eterogeneità tra i paesi membri. In Francia, dove già alla fine del 2021 c’era stato un pieno recupero, la quota dei servizi ha ora superato i livelli pre-pandemia di 3 punti, segnalando una preferenza più marcata per questi consumi. La Spagna, che ha recuperato i livelli pre-Covid all’inizio del 2022, come la Germania, segue un andamento simile, registrando oggi un incremento di 2 punti rispetto al pre-pandemia. In Italia, dove il recupero dei servizi aveva subito una battura d’arresto a inizio 2022 e si era completato alla fine del 2023, con qualche ulteriore piccola oscillazione nel 2024, la quota di consumi di servizi si è attestata poco sotto i livelli pre-pandemia (-0,3 punti nel 3° trimestre 2024).

Dunque, l’effetto della pandemia sulla composizione della spesa si è qua- si del tutto riassorbito. La marcata preferenza per i servizi rispetto ai beni, comune a USA ed Europa, ha contribuito alla debolezza della domanda nel- la manifattura nei primi anni post-Covid (2022-2023), ma sembra quasi del tutto normalizzata nel 2024, cioè tornata sui trend nazionali precedenti la pandemia. Quindi per il futuro ci si aspetta un recupero della domanda di beni in linea con quella di servizi.

Altri indicatori di performance delle imprese manifatturiere italiane. L’andamento della produzione è solo una delle dimensioni lungo cui misurare la performance delle imprese industriali o dell’intero settore. Un altro indicato- re importante è il valore aggiunto, cioè il fatturato al netto dei costi dei beni intermedi, che indica lo spazio a disposizione delle imprese per remunerare capitale e lavoro. Dall’analisi della dinamica del valore aggiunto, oltre che di altri indicatori di attività, quali esportazioni e investimenti, emerge un quadro meno cupo di quanto indichi la sola produzione.

A.          Il valore aggiunto cade meno della produzione Negli ultimi anni si è determinata una divaricazione significativa, nell’industria italiana, tra la produzione che crolla (-8,1% nel 4° trimestre 2024 sul 2° del 2022) e il valore aggiunto (in volume, cioè misurato al netto della dinamica dei prezzi) che sta scendendo molto meno (-3,5%). Nella manifattura, la forchetta apertasi tra le due variabili negli ultimi due anni è ancora più ampia che nel totale industria (-8,2% contro -3,3%): confrontando la dinamica trimestrale, si nota infatti che il valore aggiunto manifatturiero è calato con un po’ di ritardo e con intensità inferiore rispetto alla produzione, ed è stato in controtendenza, quindi in crescita, nel 4° trimestre del 2023 e del 2024 (Grafico C).


Una prima spiegazione per il minor calo del valore aggiunto è la compressione dell’utilizzo di input intermedi da parte delle imprese, più ampia di quella del prodotto. Questo, a sua volta, può riflettere un efficientamento del processo produttivo, di cui vi è evidenza aneddotica, specie in relazione a soluzioni volte a ridurre il consumo energetico per unità di prodotto.

Altre spiegazioni includono un disallineamento nel processo di “doppia deflazione” (quella del valore della produzione e quella dei consumi di beni intermedi) sottostante al calcolo del valore aggiunto in termini reali; un decumulo di scorte di beni intermedi; una ricomposizione all’interno del manifatturiero verso comparti a più alto valore aggiunto; dentro gli stessi comparti, un miglioramento della qualità delle produzioni; pur in un contesto di bassa mortalità delle imprese, una più alta probabilità di uscita dal mercato di quel- le a più basso valore aggiunto. Una volta disponibili dati disaggregati più recenti, sarà possibile investigare l’importanza relativa delle varie spiegazioni.

B.          L’export di beni resta elevato L’export italiano di beni rispetto al pre-pandemia, ovvero negli ultimi 5 anni, ha registrato l’aumento più elevato tra i principali paesi avanzati: +6,2% da fine 2019 a fine 2024 (a prezzi costanti), contro -4,7% in Germania, +1,9% in Spagna, +2,1% in Francia. Questo è vero nonostante la lieve flessione subita dal nostro export nel 2024 (-2,8% tendenziale nel 4° trimestre), comunque meno accentuata di quella registrata dall’export in Germania (-4,3%) e meno ampia rispetto alla caduta della nostra produzione industriale. In termini di valori complessivi di export raggiunti, al momento, dopo Cina, Germania e USA, siamo intorno ai livelli di Giappone e Corea del Sud. L’Italia è cioè tra i sei principali paesi esportatori al mondo. Poiché l’export di beni è, per la qua- si totalità, frutto dell’attività industriale, questa performance, sia in termini di dinamica che di livelli, non è quella di un settore industriale in profonda crisi.

C.          La propensione a investire è alta e crescente Negli ultimi anni in Italia si è avuto un forte aumento della propensione a investire. Il rapporto tra investimenti produttivi (ovvero al netto di quelli in abitazioni) e PIL è al 15,7% nel 2024, dal 14,0% nel 2019 (+1,7 punti)4. Anche guardando specificamente all’industria, nonostante il calo in termini di produzione, si registra un aumento marcato della propensione a investire: al netto delle costruzioni, gli investimenti in rapporto al valore aggiunto del settore sono saliti al 30,7% nel 2023, dal 27,3% nel 2019 (+3,4 punti). Nella manifattura, in particolare, la propensione a investire è cresciuta al 26,1% nel 2023, dal 23,9% (Grafico D).


D.          Tanta occupazione nel manifatturiero, anche senza crescita In un quadro post-pandemia caratterizzato in Italia da una elevata crescita dell’occupazione, specie se rapportata alla crescita del PIL, l’industria è il settore dove si è manifestato un vero e proprio fenomeno di “occupazione senza crescita”. In particolare, nel manifatturiero il numero di persone occupate ha registrato un +2,5% nel biennio 2023-2024 contro il -5,9% della produzione e il -1,9% del valore aggiunto.

Il labor hoarding in fasi di rallentamento del ciclo è un tratto peculiare del mercato del lavoro italiano, specie nel settore industriale, favorito dal ricorso alla CIG, che è strutturalmente un programma inteso a permettere alle imprese di trattenere lavoratori, tramite riduzioni (totali o parziali) degli orari, con una integrazione del reddito da lavoro perso finanziata da contributi ver- sati all’INPS. Nell’ultimo biennio, tuttavia, il labor hoarding nel manifatturiero italiano risulta particolarmente ampio se confrontato a periodi precedenti. Sia nella recessione 2008-09 sia in quella 2012-2013, infatti, la variazione dell’occupazione è stata negativa, seppur di intensità inferiore rispetto alla contrazione dell’attività, e accompagnata da un calo del monte ore lavorate ben più marcato, data la contemporanea riduzione degli orari di lavoro; l’aggiustamento sul margine intensivo, invece, è stato finora molto contenuto, con le ore lavorate pro-capite nel manifatturiero in solo lieve contrazione nel biennio 2023-2024 (-0,4%). L’entità del labor hoarding appare particolarmente ampia anche rispetto ad altri paesi: nel manifatturiero tedesco, in particolare, in cui le imprese contribuiscono e hanno quindi accesso al Kurzarbeit, un programma simile alla CIG, a fronte di un calo della produzione del 5% nel biennio 2023-2024, l’occupazione in aggregato nel settore ha tenuto (+0,2%), ma non è cresciuta.

Le spiegazioni per un così ampio labor hoarding sono molteplici e spaziano da attese di miglioramento a breve del ciclo e della domanda, a difficoltà di reperimento di manodopera con le competenze adeguate. Esse, inoltre, potrebbero declinarsi in maniera diversa nei vari comparti del manifatturiero, che d’altronde mostrano andamenti variegati anche rispetto all’andamento relativo dell’occupazione. Vi è un gruppo di comparti con andamenti allineati alla media del manifatturiero, graficamente evidenziati nella nuvola di punti nel quadrante in basso a destra del Grafico E intorno al rombo verde, che rappresenta appunto il dato medio. Ma ve ne sono altri con una tenuta, se non espansione, dell’occupazione in termini relativi ancora più ampia, ben evidenziati dai punti al di sotto e più lontani dalla bisettrice (linea tratteggiata arancione), che rappresenta un’elasticità tra occupazione e produzione pari a uno. In particolare, emerge la stabilità o il calo limitato dei livelli occupazionali in alcuni dei settori più colpiti dalla flessione della produzione industriale, come l’automotive, il tessile, l’abbigliamento e la pelletteria.


E.          Temporaneo ampliamento della quota profitti La tenuta dell’occupazione nel manifatturiero, nonostante il calo dei livelli di attività nel biennio 2023- 2024, si è associata, anzi è in parte stata resa possibile, dalla moderazione salariale registrata nelle prime fasi della crisi energetica. Quest’ultima, a sua volta, è attribuibile a un meccanismo di adeguamento delle retribuzioni contrattuali, concordato tra le parti sociali nel 2009, che implica che esse inglobino con ritardo eventuali pressioni inflazionistiche al di sopra delle attese, e in pratica spalma su più anni le fiammate dei prezzi, specie di natu- ra importata, come quella osservata tra fine 2021 e fine 2022. La risposta ritardata dei salari agli aumenti dei prezzi ha comportato una temporanea riallocazione nella distribuzione del valore aggiunto tra fattori, con la quota a remunerazione del lavoro in calo nel 2022. Da metà 2023, tuttavia, con il rafforzamento della dinamica salariale nominale e il protrarsi della crescita occupazionale, la quota lavoro è tornata ad espandersi, e a fine 2024 si è attestata su valori superiori al 2021, in linea con quelli pre-pandemia.

Di converso, nel biennio 2022-2023 si è registrata una temporanea espansione della quota profitti, che ha sostenuto l’accumulazione di capitale (Grafico F e Grafico D, rispettivamente). Gli aumenti di redditività registrati nel 2022 potrebbero aver consentito alle imprese di erogare aumenti delle retribuzioni nominali dal 2023 senza che si innescassero pressioni inflazionistiche, nonostante la dinamica negativa della produttività (-3,9% nel 4° trimestre 2024 sul 4° 2021, -2,4% solo nell’ultimo anno). In prospettiva, una crescita dei salari nominali senza un rilancio della produttività potrebbe innescare un circolo vizioso, sia in termini di spirale salari-prezzi (senza miglioramento del potere di acquisto) sia in termini di deterioramento della competitività del manifatturiero italiano, come riflessa dall’aumento già in atto del CLUP.


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