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Continuità sui dazi nelle due amministrazioni Trump Il proclama America First della seconda amministrazione Trump annuncia una politica economica internazionale più aggressiva e imprevedibile dell’approccio adottato nel primo mandato, che investe l’ambito commerciale (America First Trade Policy) e quello degli investimenti (America First Investment Policy), minacciando di innescare una escalation protezionistica che potrebbe ridisegnare la geografia degli scambi mondiali.
Già tra il 2018 e il 2020, durante il primo mandato Trump, gli USA avevano introdotto dazi su due terzi dell’import dalla Cina, con un’imposizione media del 19,3% sul totale degli acquisti dalla Cina (da appena il 3,1% a inizio 2018), provocando contro-dazi di entità simile da parte cinese (su circa il 58% delle importazioni dagli USA, con una tariffa media salita dall’8,0% al 21,1%). Le tariffe USA sugli acquisti dal resto del mondo, invece, erano aumentate in modo marginale, rimanendo su livelli molto bassi (dal 2,2% al 3,0% sul totale dell’import extra-Cina). Tra queste, in particolare, figurano le tariffe del 25% e del 10% sulle importazioni USA, rispettivamente, di acciaio e alluminio, sospese in tempi diversi sia dall’amministrazione Trump che da quella Biden per alcuni paesi partner, tra cui quelli UE.
L’approccio del secondo mandato Trump appare meno incline ad alleanze tattiche e fa strategicamente leva su annunci di nuove misure rivolte anche a paesi “amici”. A iniziare da Canada e Messico: partner privilegiati, commerciali ed economici, a cui gli USA sono legati dall’accordo USMCA (United States-Mexico-Canada Agreement, in precedenza NAFTA). Le nuove tariffe USA del 25% sull’import da Canada e Messico sono state momentaneamente sospese, per due volte, mentre quelle addizionali su tutti i prodotti cinesi hanno raggiunto il 20%.
Per quanto riguarda acciaio e alluminio, dal 12 marzo sono state annullate tutte le sospensioni e le deroghe introdotte (oltre alla UE, ad Argentina, Australia, Brasile, Canada, Messico, Corea del Sud, Giappone, Regno Unito e Ucraina), equiparando le tariffe al 25% su entrambi i materiali. Il Canada ha risposto immediatamente applicando, il giorno successivo, dazi reciproci su circa 30 miliardi di importazioni dagli Stati Uniti. La UE ha predisposto una lista di prodotti USA su cui graveranno contromisure di bilanciamento che entreranno in vigore dal 1° aprile.
Gli obiettivi della nuova politica USA si intrecciano e si rafforzano all’interno della dimensione strategica relativa alla sicurezza economica, che comprende anche: una revisione completa della sicurezza della base industriale, con una particolare attenzione all’import di acciaio e alluminio; un rafforzamento dell’attrattività USA di investimenti e capitali esteri; un’e- stensione dei controlli sulle esportazioni (anche aumentando la compliance dei paesi esteri) per mantenere un vantaggio tecnologico su avversari strategici o rivali geopolitici; il controllo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione; un rafforzamento degli investimenti USA in tecnologie e prodotti per la sicurezza nazionale in paesi esteri di interesse; limitazioni alla partecipazione finanziaria estera al procurement federale; la lotta all’immigrazione illegale.
Gli effetti perversi dei dazi Gli economisti sono (quasi tutti) concordi nel ritenere i dazi un cattivo strumento di policy. In generale, sono attesi avere un impatto sostanzialmente nullo sul deficit commerciale USA, senza considerare gli effetti potenzialmente dirompenti delle ritorsioni commerciali. Infatti, secondo la teoria economica, il saldo con l’estero è determinato dai livelli di risparmio e investimento domestici, che dipendono in primo luogo da altri fattori macroeconomici (fiducia e consumi delle famiglie, demografia, politiche di bilancio). Inoltre, anche il solo annuncio di nuovi dazi può generare un apprezzamento del dollaro che ne sterilizza gli effetti.
Allo stesso tempo, l’impatto aggregato negativo dei dazi è diffuso tra i consumatori finali, che possono anche sostituire i prodotti rincarati con altri domestici (e di paesi non colpiti da dazi, se questi non sono “erga omnes”), e di conseguenza poco visibile. Viceversa, l’impatto favorevole è circoscritto a produzioni domestiche difese dai dazi, che possono essere ulteriormente sostenute anche con incentivi interni e attrazione di investimenti dall’estero, e quindi immediatamente apprezzabile dalle imprese interessate (e dai lavoratori).
Le motivazioni più profonde delle misure tariffarie risiedono quindi nella loro natura selettiva, per paese e per prodotto, e nell’estrema flessibilità di applicazione. Ciò li rende un potente strumento di politica economica, che travalica la sfera commerciale, per comprendere anche i temi degli investimenti esteri, della leadership tecnologica, del controllo dei nodi produttivi strategici, della risposta alla tassazione internazionale di imprese USA.
Si tratta però di uno strumento estremamente distorsivo, che produce artificiosamente vincitori e vinti. Gli effetti si dispiegano a livello disaggregato, tra paesi e tra settori.
In particolare, i dazi introdotti dalla prima amministrazione Trump, e mantenuti da quella Biden, non hanno favorito un rientro del deficit USA, che nel 2024 ha superato un trilione di dollari, pari al 4,2% del PIL, stesso peso del 2017. È avvenuto, invece, un ribilanciamento dei deficit bilaterali: si è ampliato il deficit commerciale sia nei confronti di alcuni paesi asiatici (Vietnam, Taiwan, Corea del Sud e India), strettamente interconnessi con la Cina, che nei confronti dei partner storici (UE, Canada e Messico). Peraltro, anche in presenza dei dazi, il deficit nei confronti della Cina è aumentato nel biennio 2021-2022, per l’elevata domanda di alcuni prodotti, come le batterie elettriche (su cui, peraltro, la prima amministrazione Trump aveva imposto dazi), non soddisfatta dalla capacità produttiva domestica né da fornitori alter nativi, almeno nel breve periodo, prodotti cioè per i quali è difficile ridurre la dipendenza dalla potenza asiatica.
Impatti negativi immediati e rischi Il primo effetto della America First della seconda amministrazione Trump è quello derivante dall’incertezza stessa sull’evoluzione dei rapporti commerciali ed economici tra i principali paesi e, in generale, della governance globale. L’indice di incertezza delle politiche commerciali (Trade Policy Uncertainty), per esempio, ha raggiunto un valore record di 466 in febbraio, maggiore del 76% rispetto al picco precedente toccato durante la prima amministrazione Trump.
Ciò ha un effetto immediato di freno alla dinamica degli scambi mondiali: in base a precedenti analisi del Centro Studi Confindustria, un aumento persistente del 10% dell’incertezza mondiale sulla politica economica è asso- ciato a una minore crescita (nel trimestre successivo) di quasi mezzo punto percentuale del commercio mondiale, a seguito sia di un rallentamento dell’attività industriale che di una minore intensità degli scambi9 (un nesso incorporato nello scenario previsivo CSC, si veda il par. 7.1).
Molto maggiori e gravi sarebbero gli effetti di una vera e propria spirale protezionistica tra le principali economie mondiali, che si verificherebbe nel caso in cui entrassero in vigore tutte le misure attuate, annunciate o dichiarate in diverse occasioni da parte del presidente USA, e le relative misure di ribilanciamento paventate dalle economie colpite dai dazi americani.
Il Fondo Monetario Internazionale a ottobre 2024 ha stimato gli impatti sia di un aumento generalizzato dei dazi americani al 10% (inferiore a quello attualmente sul tavolo) che di un incremento dell’incertezza, quantificando una riduzione sul PIL mondiale di circa lo 0,8%. Con differenze tra le varie aree: più profondo l’impatto per la crescita degli Stati Uniti rispetto a quello per l’Area Euro e la Cina.
L’impatto dei dazi è strettamente legato alla profondità delle connessioni economiche che le principali economie attualmente colpite dai dazi di Trump hanno con gli Stati Uniti: maggiori sono le relazioni economiche (scambi commerciali e legami produttivi) più forte sarà l’impatto, se non si riesce a sostituire il mercato statunitense con altri mercati capaci di assorbire i prodotti esportati e di fornire quelli importati.
Italia: profonde e molteplici le connessioni con gli USA Le connessioni economiche tra Italia e Stati Uniti, che possono essere colpite direttamente e indirettamente dalle politiche commerciali USA, sono profonde e molto eterogenee.
Gli USA, infatti, sono la prima destinazione extra-UE dei flussi italiani di beni, di servizi e di investimenti diretti all’estero (Tabella A). Le vendite di beni italiani negli USA sono state pari a circa 65 miliardi di euro nel 2024, oltre un decimo del totale dell’export (10,4%, stime provvisorie), nonostante un calo registrato dal picco di oltre 67 nel 2023. Gli Stati Uniti sono ampiamente la prima destinazione extra-UE di prodotti italiani e la seconda in assoluto dietro la Germania, avendo superato la Francia nel 2022.
Gli acquisti italiani di beni USA hanno raggiunto quasi 26 miliardi nel 2024, poco meno di un ventesimo del totale dell’import (4,6% stimato). Si tratta comunque del secondo mercato di origine extra-UE, dopo la Cina (che a sua volta è seconda solo alla Germania).
Di conseguenza, il saldo commerciale italiano con gli Stati Uniti si è attestato vicino a 39 miliardi di euro, contribuendo per gran parte del surplus commerciale totale (circa 54 miliardi).
Un ruolo del mercato americano più significativo per l’Italia dal lato dell’export che dell’import è confermato dalla dinamica degli scambi italiani per paese dal 2019 (picco pre-Covid) al 2023. L’aumento delle vendite negli USA ha contribuito per 4,5 punti percentuali all’incremento dell’export totale (pari a circa il +30% cumulato nel periodo): il singolo contributo più elevato tra tutti i paesi del mondo. Il contributo dell’import dagli Stati Uniti, invece, si è attestato sotto i 2 punti percentuali (su un totale di quasi il +40%): meno di quelli di Germania, Cina, Paesi Bassi (snodo di prodotti extra-UE), Francia, Spagna e anche Algeria (fornitrice di gas).
L’interscambio di servizi Italia-USA è più bilanciato: nel 2023 (ultimo dato disponibile) 12,7 miliardi le vendite italiane e 10,1 gli acquisti, con un saldo positivo di 2,5 miliardi, che bilancia solo parzialmente il saldo negativo con il resto del mondo (-10,2 miliardi); solo con la Svizzera l’Italia detiene un surplus maggiore nei servizi.
Circa metà dell’export di servizi italiani negli USA è costituito dal turismo in entrata e un altro terzo da servizi professionali e di informazione. Questi tipi di servizi generano anche una parte consistente delle importazioni di servizi dagli Stati Uniti (in particolare, turismo italiano negli USA); inoltre, gli italiani pagano a società americane una larga parte dei compensi per l’utilizzo della proprietà intellettuale (brevetti).
Inoltre, gran parte degli scambi con gli USA è costituita da input intermedi venduti tra imprese, deriva cioè da relazioni di tipo produttivo. La presenza di multinazionali, in particolare, alimenta una quota rilevante degli scambi bilaterali. Infatti, per l’Italia il contributo delle multinazionali estere alle esportazioni di merci italiane, quindi scambi intra-firm, è pari al 35%, mentre il contributo alle importazioni di merci sfiora il 50%.
Infine, gli Stati Uniti rappresentano la prima destinazione degli investimenti italiani diretti all’estero, anche rispetto ai paesi europei, nell’ultimo biennio per cui sono disponibili i dati (2022-2023): quasi 5 miliardi di euro annui, pari a ben il 27% del totale. Appena 1,5 miliardi annui, invece, sono stati investiti dagli USA in Italia.
Si è verificato, quindi, un deflusso netto di capitali produttivi verso gli Stati Uniti. È un dato che può essere letto in positivo, come segnale di dinamicità delle multinazionali italiane negli Stati Uniti e di attrattività del mercato USA, anche grazie agli incentivi alle produzioni domestiche; una dinamica coerente con la buona performance dell’export verso gli USA. Viceversa, in negativo, il mercato italiano appare relativamente poco attrattivo per i capitali americani.
Importanti anche le connessioni indirette Le relazioni economiche dell’Italia con gli USA sono anche indirette: le vendite di semilavorati ad altri settori, domestici ed esteri, che sono poi incorporati in prodotti per il mercato USA.
In base a stime del Centro Studi Confindustria, il peso del mercato di destinazione USA per il manifatturiero italiano è pari a quasi il 7% della produzione totale (sia per il mercato estero che per quello interno), di cui circa il 5% è costituito da flussi diretti e il restante da connessioni indirette. Di queste connessioni indirette, circa metà è costituita da interdipendenze domestiche tra settori italiani, poco meno di un quarto da quelle interne all’economia USA e la parte restante da legami produttivi internazionali, soprattutto all’interno della UE.
A livello settoriale, si evidenzia una maggiore esposizione per il farmaceutico e gli altri mezzi di trasporto: il 17,4% e il 16,5% delle rispettive produzioni sono destinate al mercato USA (di cui 6,3% e 3,0%, rispettivamente, sono connessioni indirette, Grafico A). Seguono gli autoveicoli, i macchinari e impianti, gli altri manifatturieri, le pelli e calzature, settori accomunati da un’elevata apertura agli scambi con l’estero. Significativa anche l’esposizione agli USA delle bevande. Infine, i legami indiretti accrescono molto (in proporzione) l’esposizione di altri settori che sono a monte delle filiere produttive, come la chimica, i metalli, gli altri minerali non metalliferi.
I dazi su acciaio e alluminio Nel caso di acciaio e alluminio, i dazi favoriscono l’attività siderurgica USA ma penalizzano molti settori manifatturieri americani che si riforniscono di metalli. Studi empirici ed esperienze passate puntano a un effetto complessivamente negativo di tali dazi per l’economia statunitense. L’impatto negativo potrebbe essere maggiore soprattutto nel lungo termine, a causa di una minore spinta all’innovazione e alla competitività, specie da parte delle imprese più internazionalizzate (e grandi, in particolare le multinazionali).
I dazi sui metalli sono una tassa che si scarica sulle imprese statunitensi e, quindi, sui prezzi al consumo. L’entità della trasmissione dipende dalle politiche di prezzo degli esportatori (che possono abbassare i loro prezzi) e dei produttori domestici (i cui margini possono assorbire parte dell’aumento dei costi). In particolare, nel caso dei primi dazi sull’acciaio (Trump), i prezzi delle importazioni americane di acciaio hanno registrato una riduzione pari a circa la metà del valore delle tariffe. Il pass-through su margini e prezzi negli USA è stato quindi incompleto (mentre per gran parte degli altri prodotti i dazi si sono scaricati interamente su costi di produzione e prezzi al consumo).
Dal punto di vista delle produzioni italiane ed europee, il rischio rappresentato dai dazi USA è duplice: riduzione delle quote e/o dei prezzi di vendita in un mercato di destinazione molto grande e dinamico, non sostituibile con altri mercati (se non parzialmente); o trasferimento di parte della produzione all’interno dei confini USA, per non perdere quote, ma con una perdita di capacità produttiva nel paese di origine.
Gli Stati Uniti rappresentano per le esportazioni italiane di acciaio e alluminio un importante mercato di destinazione, pari al 17% dell’export settoriale italiano verso i paesi extra-UE (nel 2018). Successivamente all’entrata in vigore dei primi dazi, il peso delle esportazioni settoriali italiane si è ridotto di circa 3 punti percentuali in tre anni, da metà 2018 al 2021. Dopo la sospensione delle tariffe, il peso degli USA per l’export settoriale italiano ha superato quello del 2018, attestandosi al 19% nel 2023. Le vendite italiane e tedesche di acciaio e alluminio verso gli Stati Uniti contribuiscono a più del 40% del totale esportato dai paesi dell’UE nel 2023.
Restringendo l’analisi all’acciaio, che rappresenta più dell’86% del valore dei due metalli esportati dall’Italia negli Stati Uniti, emerge chiaramente l’importanza del mercato americano. Nel 2018 per i prodotti di acciaio italiani venduti all’estero gli USA rappresentavano la seconda meta di destinazione, subito dopo la Spagna, ma si collocavano al primo posto per surplus commerciale. Nel 2023 gli Stati Uniti hanno superato anche la Spagna, rappresentando il primo paese di destinazione di acciaio italiano nel mondo.
L’esito dei dazi USA introdotti da marzo 2018, con diverse esenzioni e inasprimenti, non è univocamente interpretabile. A fronte di un aumento, tra il 2018 e il 2021, della produzione domestica americana di acciaio, di più del 14%, si è registrata una crescita maggiore dell’import (+17,4%) e minore dell’export (+9,4%). Una possibile stima delle necessità domestiche di acciaio negli Stati Uniti è la sua “domanda interna apparente” (produzione lorda dell’industria aumentata delle importazioni settoriali e diminuita delle esportazioni). La dinamica della “domanda interna apparente” riflette una crescita cumulata dal 2019 al 2023 del +46% (più di 200 miliardi di dollari il valore del consumo interno nel 2023), concentrata soprattutto dal 2021. Ciò dimostra che nonostante i dazi introdotti dal 2018 e un utilizzo della capacità produttiva prossima all’80% nel 2024, le importazioni americane dei prodotti in acciaio continuano a crescere, segno che i prodotti specifici del settore non possono essere sostituiti con la produzione domestica USA.
Possibili scenari futuri e impatti Il 1° aprile, appena dopo la chiusura in tipografia del presente rapporto, sono attese sul tavolo del Presidente USA le analisi richieste per procedere all’implementazione dell’America First Trade Policy, nei confronti non solo della Cina ma di tutti i principali partner commerciali, in particolare quelli UE. Le analisi riguardano, infatti, il commercio estero cosiddetto “sleale e squilibrato” (unfair and unbalanced trade), che comprende i deficit commerciali bilaterali e la tassazione considerata distorsiva, come l’IVA europea.
A questo passaggio potrebbero seguire, già dal giorno successivo, i cosiddetti “dazi reciproci”, potenzialmente su tutti gli acquisti USA all’estero, che a loro volta potrebbero provocare ritorsioni uguali e contrarie da parte dei paesi colpiti, innescando una vera e propria spirale protezionistica globale.
Non è possibile anticipare la portata dei nuovi dazi USA, in termini di estensione (a quali prodotti e paesi di origine), di intensità (in percentuale del valore delle merci) o tantomeno di durata (sospensioni, esenzioni, ecc.), data l’imprevedibile strategia di negoziazione della Casa Bianca. Tuttavia, diventa urgente evidenziare i rischi di un’escalation protezionistica, quantificandone i possibili effetti negativi sull’economia mondiale e, in particolare, su quella italiana.
Lo scenario di base già incorpora rilevanti fattori di freno agli scambi:
Una possibile escalation tariffaria tra gli Stati Uniti e il resto del mondo, pro- durrebbe effetti negativi in tre modi diversi:
Se queste tre ipotesi si concretizzassero congiuntamente, avrebbero un impatto cumulato negativo sul PIL italiano, misurato come scostamento ri- spetto allo scenario base, del -0,4% nel 2025 e del -0,6% nel 2026 (Tabella B).
Dunque, la moderata crescita italiana prevista nel biennio rischia di essere in buona misura erosa in questo scenario commerciale avverso.
Sulla minore crescita in Italia influirebbero sia una forte riduzione delle esportazioni di beni rispetto allo scenario base (-2,2% nel 2026), accompagnata da una contrazione delle importazioni di beni (-1,9%), che una riduzione degli investimenti (-0,6%), molto più sostenuta per la componente strettamente connessa alla produzione (investimenti in macchinari, -1,6%). La presenza dei dazi reciproci comporterebbe anche un aumento dei prezzi al consumo, già nel primo anno (+0,25%) e poi maggiormente nel secondo (+0,33%).