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1. Dazi USA: uno scenario in continuo mutamento
Il secondo mandato Trump riapre uno scenario di guerra commerciale potenzialmente molto più ampio e profondo rispetto a quello che ha caratterizzato il primo, quando i dazi applicati e mantenuti avevano riguardato quasi esclusivamente la Cina, laddove quelli rivolti alla UE e ad altri paesi sono stati contenuti in termini di aliquote e/o mitigati da intese successive.
Tra il 2018 e il 2020, infatti, gli USA hanno introdotto dazi su due terzi dell’import dalla Cina, con un’imposizione media del 19,3% sul totale degli acquisti dalla Cina (da appena il 3,1% a inizio 2018), provocando contro-dazi di entità simile da parte cinese (su circa il 58% delle importazioni dagli USA, con una tariffa media salita dall’8,0% al 21,1%).
Le tariffe USA sugli acquisti dal resto del mondo, invece, sono aumentate in modo marginale, rimanendo su livelli molto bassi (dal 2,2% al 3,0% sul totale dell’import extra-Cina). Tra queste, in particolare, figurano le tariffe del 25% e del 10% sulle importazioni USA, rispettivamente, di acciaio e alluminio (sospese per gli esportatori UE dall’amministrazione Biden a fine 2021).
L’approccio del secondo mandato appare decisamente meno incline ad alleanze strategiche, deroghe, o esenzioni e fa strategicamente leva sugli annunci pressoché quotidiani di nuove misure rivolte anche a paesi “amici”, a iniziare da Canada e Messico: partner privilegiati, commerciali ed economici a cui gli USA sono legati dall’accordo USMCA (United States-Mexico-Canada Agreement, in precedenza NAFTA).
Il 1° febbraio 2025, infatti, il neopresidente USA ha annunciato l’introduzione di dazi addizionali del 25% su tutti i prodotti provenienti da Canada e Messico (ridotti al 10% per l’energia dal Canada) e del 10% sugli acquisti dalla Cina. La motivazione fa riferimento a emergenze di sicurezza nazionale: l’ingresso da questi paesi di droghe, come il fentanil, e di immigrazione illegale, in particolare dal confine messicano.
Queste misure sono state sospese l’indomani per un mese, prima di essere applicate, a seguito di impegni da parte di questi paesi per un maggiore controllo sui flussi irregolari di confine e sul traffico di farmaci e sostanze illecite. Quelli addizionali sull’import dalla Cina, invece, sono entrati in vigore il 4 febbraio, provocando una reazione da parte delle autorità cinesi, sotto forma di contro-dazi su prodotti selezionati USA e controlli all’export di terre rare.
Inoltre, Trump ha ribadito di voler estendere a breve le barriere tariffarie ad altri paesi, tra cui quelli dell’UE. Il 10 febbraio ha annunciato la re-introduzione dei dazi erga omnes su acciaio e alluminio a partire dal prossimo 12 marzo , annullando tutte le sospensioni e le deroghe introdotte (oltre alla UE, ad Argentina, Australia, Brasile, Canada, Messico, Corea del Sud, Giappone Regno Unito e Ucraina) ed equiparando le tariffe al 25% su entrambi i materiali. In alcune occasioni, infine, ha minacciato anche dazi universali del 10-20% su tutte le importazioni statunitensi.
Se tutte queste misure saranno effettivamente applicate, è assai probabile che si attiverà una vera e propria escalation. Canada e Messico avevano già annunciato contro-dazi e la Commissione europea ha dichiarato di essere pronta a muoversi nella stessa direzione.
L’elevatissima incertezza generata dalla sola minaccia di precipitare le relazioni commerciali ed economiche in spirali ritorsive è in grado, da sé, di produrre effetti profondi sul commercio e sulle connessioni economiche mondiali. Particolarmente esposte a queste tensioni sono le economie europee, specie quella italiana, molto aperte agli scambi con l’estero, integrate nelle catene globali del valore e strettamente connesse all’economia USA.
La seguente analisi è divisa in due parti. Nella prima, passiamo in rassegna motivazioni e strumenti della politica commerciale americana e le sue possibili conseguenze economiche, negli Stati Uniti e nella configurazione degli scambi mondiali.
Nella seconda parte, analizziamo i potenziali canali di trasmissione, diretti e indiretti, all’economia italiana, i settori maggiormente esposti e i prodotti potenzialmente più a rischio, anche in base alle priorità di policy identificate in precedenza.
2. Quali scenari futuri? Strumenti di policy, teoria economica e fatti stilizzati
2.1 Obiettivi e strumenti delle politiche commerciali USA
L’emergenza di sicurezza nazionale adottata da Trump per motivare i dazi a Canada, Messico e Cina è uno degli strumenti di politica commerciale a disposizione dell’amministrazione USA, in base all’International Emergency Economic Powers Act.
Gli strumenti istituzionali utilizzabili dall’Amministrazione americana sono attualmente quattro, con una procedura differenziata a seconda della tipologia di “minacce” da fronteggiare (Schema A). I differenti istituti legislativi riconoscono al Presidente la possibilità di imporre barriere tariffarie al fine di tutelare l’economia americana a fronte di:
Tali strumenti forniscono le basi giuridiche alle decisioni collegate al memorandum America First Trade Policy del 20 gennaio 2025 coniugando esigenze di sicurezza nazionale, riduzione del deficit e delle dipendenze dall’estero ed il contrasto alle pratiche ritenute sleali con l’obiettivo di accrescere i vantaggi industriali e tecnologici degli USA a livello globale nell’interesse di imprese e lavoratori americani. Il memorandum prevede la presentazione entro il 1° aprile 2025 di analisi e proposte lungo molteplici dimensioni economiche, commerciali, geopolitiche e strategiche che in larga parte si sovrappongono e si rafforzano mutualmente.
Gli obiettivi economici e commerciali comprendono: ribilanciare il deficit commerciale; aumentare le entrate fiscali dalle tariffe; favorire le imprese domestiche.
Quelli più specificamente commerciali includono: combattere le pratiche scorrette di altri paesi (dazi antidumping e compensativi, manipolazione dei tassi di cambio, prodotti contraffatti e farmaci di contrabbando, imposte discriminatorie all’estero nei confronti di cittadini e imprese USA); negoziare o rinegoziare accordi bilaterali e settoriali (compresi quelli con Canada e Messico e con la Cina).
Sulla Cina, in particolare, si concentrano gli obiettivi geopolitici, con una particolare attenzione alle pratiche scorrette e discriminatorie, all’elusione attraverso paesi terzi, e alla difesa dei diritti di proprietà intellettuale (brevetti, diritto d’autore e marchi).
Tali obiettivi si intrecciano e si ampliano all’interno della dimensione strategica relativa alla sicurezza economica, che comprende: una revisione completa della sicurezza della base industriale e manifatturiera, con una particolare attenzione all’import di acciaio e alluminio; un rafforzamento e un’estensione dei controlli sulle esportazioni (anche aumentando la compliance dei paesi esteri) per mantenere un vantaggio tecnologico su avversari strategici o rivali geopolitici; controllo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione; rafforzamento degli investimenti USA in tecnologie e prodotti per la sicurezza nazionale in paesi esteri di interesse; limitazioni alla partecipazione finanziaria estera al procurement federale; lotta all’immigrazione illegale e all’import di fentanil.
2.2 Effetti macroeconomici negativi
Alla luce dell’ampio spettro di obiettivi e strumenti a disposizione (che non consistono, dunque, solamente nell’applicazione di dazi), una stima dell’impatto economico anche delle sole misure tariffarie appare un esercizio prematuro e scarsamente predittivo.
Molto utile, invece, è inquadrare e schematizzare i diversi potenziali canali di trasmissione degli effetti dei dazi all’economia USA e lungo le connessioni internazionali, in base a due dimensioni principali: i paesi e i prodotti colpiti (si veda la Schema B).
Un primo effetto, come già accennato, è quello derivante dell’incertezza stessa sull’evoluzione dei rapporti commerciali ed economici tra i principali paesi e, in generale, della governance globale. L’indice di incertezza delle politiche economiche (Economic Policy Uncertainty), per esempio, ha raggiunto un valore record di 345 in novembre, maggiore del picco precedente raggiunto durante la prima amministrazione Trump.
Ciò ha un effetto immediato di freno alla dinamica degli scambi mondiali: in base a precedenti analisi del Centro Studi Confindustria, un aumento persistente del 10% dell’incertezza mondiale sulla politica economica è associato a una minore crescita (nel trimestre successivo) di quasi mezzo punto percentuale del commercio mondiale, a seguito sia di un rallentamento dell’attività industriale che di una minore intensità degli scambi.
Per quanto riguarda l’economia domestica USA, teoria economica ed evidenza empirica portano a conclusioni robuste: i dazi hanno un impatto aggregato negativo o poco significativo sulla riduzione del deficit, senza considerare gli effetti perversi delle ritorsioni commerciali. I principali risultati sono i seguenti (Schema B, riquadro in lato a sinistra).
I dazi, infatti, riducono i flussi di beni in entrambe le direzioni. Direttamente dal lato dell’import, favorendo i prodotti domestici. Indirettamente dal lato dell’export, attraverso un apprezzamento del cambio e un aumento del costo degli input importati: fattori che riducono la competitività estera delle produzioni USA. Inoltre, import ed export sono correlati, perché possono riguardare diverse fasi di uno stesso processo produttivo lungo le catene globali del valore.
I dazi sono una tassa che si scarica su famiglie e imprese statunitensi. L’impatto finale è un aumento (una tantum) dei prezzi al consumo, direttamente via beni di consumo importati e indirettamente via costi delle imprese. L’entità della trasmissione dipende dalle politiche di prezzo degli esportatori (che possono abbassare i loro prezzi) e dei produttori domestici (i cui margini possono assorbire parte dell’aumento dei costi). I lavori empirici basati sull’esperienza della prima amministrazione Trump mostrano che il pass-through è stato completo per gran parte dei prodotti, cioè i dazi si sono scaricati interamente su prezzi di acquisto e costi di produzione in USA (con delle eccezioni, per esempio nell’acciaio), con un impatto finale di minori margini per le imprese e maggiori prezzi per i consumatori. Tra ottobre 2017 e ottobre 2019, il prezzo delle importazioni americane dalla Cina si è ridotto soltanto dell’1,4% a fronte di un aumento delle tariffe sull’import cinese del 25%.
Gli effetti sul PIL sono negativi, per un utilizzo meno efficiente dei fattori produttivi, e abbastanza contenuti per un’economia grande e relativamente poco aperta agli scambi con l’estero come quella USA: circa -0,2% stimato in seguito ai dazi del Trump I (2018-2019). Tuttavia, l’impatto si amplia nel lungo periodo, perché la minore concorrenza internazionale e la sopravvivenza di imprese meno efficienti riduce la crescita economica potenziale.
Gli economisti sono quindi concordi nel ritenere i dazi un cattivo strumento di policy. Perché allora non ricevono una generale opposizione da parte degli elettori?
Una risposta risiede nel fatto che l’impatto aggregato è modesto (del tutto superato dall’emergenza Covid nel 2020) e soprattutto diffuso tra i consumatori finali, che possono anche sostituire i prodotti rincarati con altri domestici (e di paesi non colpiti da dazi, se questi non sono erga omnes).
Viceversa, l’impatto favorevole è circoscritto a produzioni domestiche difese dai dazi, che possono essere anche oggetto di politiche di incentivo e attrazione di investimenti dall’estero, e quindi immediatamente apprezzabile da lavoratori e imprese interessati. Si tratta tipicamente di settori industriali e aree geografiche che sono stati maggiormente colpiti dalla globalizzazione e dalla concorrenza, anche sleale, cinese.
2.3 Effetti selettivi per paese e per prodotto
Le motivazioni più profonde delle misure tariffarie risiedono quindi nella loro natura selettiva, per paese e per prodotto, e nell’estrema flessibilità di applicazione. I dazi, infatti, possono essere annunciati e poi posticipati, rivisti, accompagnati da altre misure non tariffarie, come i divieti alle esportazioni, lo screening agli investimenti esteri, ecc.
Ciò li rende un potente strumento di politica economica, che travalica la sfera commerciale, per comprendere anche i temi degli investimenti esteri, della leadership tecnologica, del controllo dei nodi produttivi strategici, della tassazione internazionale, fino a quello militare.
Si tratta però di uno strumento estremamente distorsivo, che produce artificiosamente vincitori e vinti. Gli effetti si dispiegano a livello disaggregato, tra paesi e tra settori. È utile passarli in rassegna schematicamente.
Dazi selettivi per paese (Schema B, riquadro in alto a destra):
Divide et impera. L’applicazione di dazi differenziati tra paesi, potenzialmente anche tra quelli dell’Unione europea, pone gli Stati Uniti, prima potenza economica mondiale, in una posizione contrattuale di particolare forza. Questo elemento, in combinazione con i diversi obiettivi geoeconomici elencati in precedenza, rappresenta una forte criticità per la politica commerciale comune dell’Unione europea.
Infine, i dazi possono selezionare, in modo molto dettagliato, specifici prodotti e settori, eventualmente combinati con la provenienza geografica (Schema B, riquadri in basso).
Specifiche linee tariffarie erga omnes possono riguardare produzioni strategiche per la sicurezza nazionale o a rischio di eccessiva dipendenza dall’estero, come le forniture di metalli (acciaio e alluminio) e la filiera dell’automotive. L’universalità delle tariffe riduce il rischio di trade diversion (una delle motivazioni adottate da Trump a febbraio 2025 per eliminare le esenzioni su acciaio e alluminio provenienti da paesi “amici”), anche se la stessa aliquota può avere effetti commerciali differenti su economie diversamente specializzate. Inoltre, le misure possono essere associate ad altre di incentivo delle produzioni domestiche e di attrazione di investimenti produttivi da paesi “amici”, come quelle contenute nell’Inflation Reduction Act. Ciò comporta una potenziale rilocalizzazione produttiva a svantaggio dei paesi partner più vicini e di quelli più interconnessi, come la UE.
Cina a compiere progressi più rapidi sulla frontiera tecnologica in genere e in particolare nella produzione di chip, riducendo la dipendenza dalle aziende americane .
Ribilanciamento strategico con paesi amici. È plausibile un rafforzamento dell’integrazione in filiere strategiche come quella dell’energia tra gli USA e i partner occidentali. L’export di gas naturale americano, in particolare, potrebbe parzialmente riequilibrare la bilancia commerciale USA-UE. Al contrario, se le tensioni si estendessero ai paesi amici, gli effetti, inclusa una minore cooperazione internazionale in ricerca e innovazione, ridurrebbero la crescita mondiale nel lungo periodo.
3. Il ruolo degli Stati Uniti per gli scambi e gli investimenti italiani ed europei
3.1 Connessioni economiche molteplici e profonde
Le connessioni economiche tra Italia e Stati Uniti, che possono essere colpite direttamente e indirettamente dalle politiche commerciali USA, sono profonde e molto eterogenee.
Gli USA, infatti, sono la prima destinazione extra-UE dei flussi italiani di beni, di servizi e di investimenti diretti all’estero (tabella 1).
Le vendite di beni italiani negli USA sono state pari a circa 65 miliardi di euro nel 2024, oltre un decimo del totale dell’export (10,4%, stime provvisorie), nonostante un calo registrato dal picco di oltre 67 nel 2023. Gli Stati Uniti sono ampiamente la prima destinazione extra-UE di prodotti italiani e la seconda in assoluto dietro la Germania, avendo superato la Francia nel 2022.
Gli acquisti italiani di beni USA hanno raggiunto quasi 26 miliardi nel 2024, meno di un ventesimo del totale dell’import (4,6% stimato). Si tratta comunque del secondo mercato di origine extra-UE dopo la Cina, che a sua volta è seconda solo alla Germania.
Di conseguenza, il saldo commerciale italiano con gli Stati Uniti si è attestato vicino a 39 miliardi di euro, contribuendo per gran parte del surplus commerciale totale (circa 54 miliardi).
Un ruolo del mercato americano più significativo dal lato dell’export che dell’import è confermato dalla dinamica degli scambi italiani per paese dal 2019 (picco pre-Covid) al 2023 (si veda il grafico 2).
L’aumento delle vendite negli USA ha contribuito per 4,5 punti percentuali all’incremento dell’export totale (pari a circa il 30% cumulato nel periodo): il singolo contributo più elevato tra tutti i paesi del mondo. Il contributo dell’import dagli Stati Uniti, invece, si è attestato sotto i 2 punti percentuali (su un totale di quasi il 40%): meno di quelli di Germania, Cina, Paesi Bassi (snodo di prodotti extra-UE), Francia, Spagna e anche Algeria (fornitrice di gas).
L’interscambio di servizi Italia-USA è più bilanciato: nel 2023 (ultimo dato disponibile) 12,7 miliardi le vendite e 10,1 gli acquisti, con un saldo positivo di 2,5 miliardi, che bilancia solo parzialmente il saldo negativo con il resto del mondo (-10,2 miliardi, USA esclusi); solo con la Svizzera l’Italia detiene un surplus maggiore nei servizi.
Circa metà dell’export di servizi italiani negli USA è costituito dal turismo in entrata e un altro terzo da servizi professionali e di informazione. Questi servizi generano anche una parte consistente delle importazioni di servizi dagli Stati Uniti (in particolare, turismo italiano negli USA); inoltre gli italiani pagano a società americane una larga parte dei compensi per l’utilizzo della proprietà intellettuale.
Infine, un’analisi dello scambio dei beni e servizi tra le due sponde dell’Atlantico non può prescindere dalle relazioni di tipo produttivo. La presenza di multinazionali, infatti, alimenta una quota rilevante degli scambi bilaterali di beni e servizi. In particolare, per l’Italia la quota del contributo delle multinazionali estere alle esportazioni di merci è pari al 35% mentre quello alle importazioni sfiora il 50%.
Gli Stati Uniti rappresentano la prima destinazione degli investimenti italiani diretti all’estero, anche rispetto ai paesi europei, nell’ultimo biennio per cui sono disponibili i dati (2022-2023): quasi 5 miliardi annui, pari a ben il 27% del totale (media 2022-2023). Appena 1,5 miliardi annui, invece, sono stati investiti da residenti USA in Italia.
Si è verificato, quindi, un deflusso netto di capitali produttivi verso gli Stati Uniti. È un dato che può essere letto in positivo, come segnale di dinamicità delle multinazionali italiane negli Stati Uniti e di attrattività del mercato USA, anche grazie agli incentivi alle produzioni domestiche; una dinamica coerente con la buona performance dell’export verso gli USA. Viceversa, in negativo, il mercato italiano appare relativamente poco attrattivo per i capitali americani. Ciò è in linea con la dinamica relativamente contenuta dell’import dagli USA.
Le connessioni produttive che l’Italia e gli altri paesi UE hanno realizzato nel tempo con gli Stati Uniti sono evidenziate dallo stock degli investimenti diretti esteri. Gli USA come investitore estero rappresentano quasi un terzo dello stock di capitali investiti nella UE (dai paesi extra-UE) e come meta di investimento più di un quarto del totale investito da parte delle imprese europee (nei paesi extra-UE, tabella 2).
L’economia italiana è meno esposta rispetto a Francia e Germania, e alla media dei paesi europei, ai legami produttivi con gli Stati Uniti, sia in entrata che in uscita. Tuttavia, se si considerano le statistiche per investitore ultimo e non solo come controparte immediata, risalendo attraverso i legami societari alla proprietà effettiva, la presenza delle imprese americane risulta essere molto più rilevante anche per l’Italia, giungendo a rappresentare più del 30% dello stock di capitali extra-UE investiti nell’economia nazionale.
Al fine di cogliere l’effettiva relazione economica che i capitali esteri investiti nelle rispettive economie hanno realizzato è opportuno considerare le statistiche sulle multinazionali. Nel 2022 (ultimo anno di rilevazione disponibile), le multinazionali americane presenti sul territorio italiano erano le prime per numero di occupati (più di 350mila, tabella 3), contribuendo per più di un quinto al valore aggiunto nazionale e alla spesa in ricerca e sviluppo. La presenza delle multinazionali americane è particolarmente importante nella manifattura italiana, dove sono concentrati più di 110mila addetti. Entrando nel dettaglio settoriale, il 90% delle multinazionali extra-UE del comparto elettronico e ICT è di proprietà americana.
Inoltre, gli Stati Uniti sono la meta preferita per le multinazionali italiane: nel 2022 sono al primo posto per numero di imprese straniere controllate da imprese italiane e al secondo, subito dopo il Brasile, per numero di addetti, producendo un fatturato pari al 14% di quello realizzato dalle imprese residenti sul territorio italiano.
3.2 L’esposizione settoriale, diretta e indiretta, agli scambi con gli USA
I principali comparti manifatturieri italiani sono potenzialmente esposti a misure protezionistiche americane.
Tutti i settori godono, infatti, di un surplus commerciale con gli Stati Uniti, con l’eccezione di un marginale deficit in quello della carta (dati 2023)
I principali settori in termini di export, import e saldo con gli USA sono: macchinari e impianti (primo esportatore), farmaceutica (primo importatore), autoveicoli e altri mezzi di trasporto, alimentari e altri beni manifatturieri. Insieme, generano quasi tre quarti del surplus commerciale italiano con gli Stati Uniti (tabella 4).
Il saldo italiano contribuisce a una parte significativa di quello complessivo dei paesi UE con gli Stati Uniti: circa il 27% del totale, secondo solo a quello tedesco (55%).
I comparti manifatturieri europei che contribuiscono maggiormente al surplus commerciale corrispondono a quelli identificati per l’Italia, con l’eccezione degli altri mezzi di trasporto (saldo negativo a livello UE), e con l’aggiunta di apparecchi elettrici e di metalli di base.
Nel settore primario, invece, Italia e UE nel complesso registrano un deficit commerciale con gli Stati Uniti, alimentato soprattutto dagli acquisti di gas naturale USA, che hanno contribuito a sostituire le forniture russe, raggiungendo nel 2023 un valore di poco meno di 7 miliardi di euro in Italia e quasi 70 miliardi in Europa. L’import di gas americano potrebbe essere ulteriormente incrementato, anche per venire incontro alle richieste di riequilibrio della bilancia commerciale da parte dell’amministrazione Trump.
Per cogliere l’esposizione settoriale al mercato americano, però, è utile calcolare il peso dei flussi con gli USA sui flussi totali del settore.
Per compatibilità a livello UE, consideriamo prima i soli scambi extra-UE. Secondo questa metrica, i settori italiani più esposti sono le bevande (negli USA il 39% dell’export extra-UE), gli autoveicoli e altri mezzi di trasporto (30,7% e 34,0%, rispettivamente) e la farmaceutica (30,7%). Questi settori sono anche più esposti agli USA in Italia rispetto alla media UE; a livelli più bassi, spiccano anche gli alimentari italiani. Fa eccezione il farmaceutico, che a livello europeo è ancora più esposto agli USA (34,7%, il valore più elevato; si veda il grafico 3).
Nel complesso, comunque, l’export italiano è più esposto della media UE al mercato di destinazione americano: 22,2% rispetto al 19,7% delle vendite extra-UE. Viceversa, il totale dell’import italiano è meno dipendente di quello medio UE dalle forniture USA: 9,9% e 13,8%, rispettivamente, degli acquisti extra-UE.
I comparti italiani più esposti sono il farmaceutico (38,6%) e le bevande (38,3%; molto sopra la media UE), le cui connessioni con gli USA vanno quindi in entrambe le direzioni, evidenziando la profonda integrazione delle filiere produttive (si veda il grafico 4). Eventuali misure protezionistiche avrebbero effetti a cascata su entrambi i flussi, con un impatto limitato sui saldi.
Tra gli altri settori, il peso USA nell’import di altri mezzi di trasporti (autoveicoli esclusi) dagli USA è molto elevato per la UE (42,5%, valore massimo), meno per la sola Italia (15,0%). Gli autoveicoli, invece, non sono dipendenti dal lato degli acquisti, soprattutto in Italia (appena 3,5%), segnalando una connessione sbilanciata dal lato delle vendite, e quindi potenzialmente più colpita da eventuali barriere tariffarie USA.
Infine, il calcolo dell’esposizione settoriale, cioè del peso dei flussi con gli USA, può essere arricchito lungo due dimensioni : al numeratore, aggiungendo ai flussi diretti verso gli Stati Uniti anche quelli indiretti, cioè le vendite di semilavorati ad altri settori, domestici ed esteri, che sono incorporati in prodotti per il mercato USA ; al denominatore, considerando un aggregato più ampio come l’export totale o preferibilmente le vendite totali (comprese quelle sul mercato interno).
Le connessioni dirette e indirette al mercato di destinazione USA, in percentuale della produzione totale settoriale, in base a stime del Centro Studi Confindustria, offrono un quadro leggermente diverso dall’analisi precedente (si veda il grafico 5).
I comparti più esposti risultano il farmaceutico e gli altri mezzi di trasporto: il 17,4% e il 16,5% delle rispettive produzioni sono destinate al mercato USA (di cui 6,3% e 3,0%, rispettivamente, sono connessioni indirette). Seguono gli autoveicoli, i macchinari e impianti, gli altri manifatturieri, le pelli e calzature, settori accumunati da un’elevata apertura agli scambi con l’estero. Scalano alcune posizioni le bevande e gli alimentari, in cui il peso del mercato interno è relativamente maggiore. Infine, i legami indiretti accrescono l’esposizione di altri settori a monte delle filiere produttive, come la chimica, i metalli e altri minerali non metalliferi.
Per il totale del manifatturiero, il peso del mercato di destinazione USA è stimato pari a quasi il 7% della produzione totale, di cui circa il 5% è costituito da flussi diretti e il restante da connessioni indirette. Di queste connessioni indirette, circa metà è costituita da interdipendenze domestiche tra settori italiani, poco meno di un quarto da quelle interne all’economie USA e la parte restante da legami produttivi internazionali, soprattutto all’interno della UE.
4. Quali prodotti europei e italiani sono maggiormente esposti ai possibili dazi americani?
Al fine di evidenziare l’esposizione dei singoli prodotti italiani ed europei venduti agli Stati Uniti abbiamo considerato una disaggregazione merceologica che comprende quasi 8mila beni (classificazione HS a sei digit). I prodotti italiani venduti negli Stati Uniti sono 4mila (pari all’80% in termini di varietà di quelli venduti ai paesi extra-UE), mentre quelli europei 5mila (93%). Gli Stati Uniti sono un paese verso cui l’Italia e gli altri paesi europei esportano molto sia in termini di valore che di varietà dei prodotti.
Per comprendere quali prodotti, italiani e europei, potrebbero essere maggiormente impattati dall’eventuale guerra commerciale, abbiamo qui selezionato tre aspetti in particolare. Il primo è legato all’esposizione granulare delle esportazioni italiane ed europee verso il mercato di destinazione americano, gli altri due integrano valutazioni economiche ad altre più “politiche”, in quanto dipendono dalla valutazione assegnata dall’amministrazione americana a certe tipologie di prodotti sia per le loro caratteristiche strategiche (appartenenti a settori ritenuti fondamentali per la sicurezza e il benessere economico della nazione) che per la loro eccessiva dipendenza dall’estero, misurata attraverso un elevato livello di deficit commerciale per gli Stati Uniti (e quindi, viceversa, un forte surplus di cui beneficiano le economie europee). I criteri di valutazioni sono i seguenti:
4.1 I prodotti maggiormente esposti al mercato americano
Negli ultimi tre anni i prodotti italiani che hanno mantenuto o rafforzato una esposizione verso il mercato americano superiore al 50% sul totale extra-UE sono 90 (su 4mila prodotti). Nel 2023 questi prodotti maggiormente esposti hanno raggiunto un valore delle vendite verso gli USA superiore ai 10 miliardi di euro, pari al 16,2% del totale esportato nel mercato americano, e hanno contribuito a un quarto del surplus commerciale. I prodotti così selezionati rappresentano i due terzi dell’export italiano verso i paesi extra UE.
I prodotti europei che soddisfano lo stesso criterio di selezione sono in numero inferiore a quelli italiani, 81 su quasi 5mila prodotti esportati negli USA. Per questi prodotti le vendite negli USA rappresentano il 67% di quelle extra-UE, nel 2023 hanno superato complessivamente i 45 miliardi di euro, il 9,1% del totale esportato nel mercato americano e contribuiscono al 14% del surplus commerciale.
La quasi totalità dei prodotti italiani che rispondono al criterio di maggiore esposizione al mercato americano presentano anche un valore dell’export molto prossimo a quello del rispettivo saldo, cioè valori molto bassi dell’import, diversamente da ciò che accade ai prodotti europei maggiormente esposti. Ciò è sicuramente un indicatore di una forte dipendenza, almeno relativamente all’Italia, al mercato di destinazione americano, e quindi di un impatto maggiore di eventuali dazi USA; allo stesso tempo, potrebbe segnalare l’assenza di una forte base produttiva di origine americana da poter utilizzare in caso di dazi.
Infatti, per l’Italia il raggruppamento settoriale di tutti i prodotti selezionati mostra un allineamento sulla bisettrice del primo quadrante in cui sugli assi sono rappresentati il valore dell’export e il rispettivo saldo commerciale (grafico 6). I primi tre aggregati di prodotti per esposizione italiana al mercato USA (Mezzi di trasporto, Prodotti chimici e farmaceutici e Alimentari e bevande) rappresentano in termini di valore esportato l’85% del totale selezionato e quasi il 90% del surplus commerciale.
Nel caso dei paesi UE l’allineamento tra export e saldo non si realizza nei primi tre settori (Prodotti chimici e farmaceutici, Mezzi di trasporto e Macchinari) per valore dell’export verso gli USA, che rappresentano quasi il 90% del totale selezionato e circa l’80% del rispettivo surplus commerciale. I primi due coincidono, sebbene nell’ordine inverso, con quelli selezionati per l’Italia; i macchinari, il settore italiano con la più alta vocazione all’export, sono al quarto posto della classifica per l’Italia.
4.2 I prodotti a rischio per surplus commerciale elevato
Uno degli obiettivi di Trump è ridurre il deficit commerciale americano , quindi, i prodotti che potrebbero essere più a rischio “dazi” sono quelli che alimentano un elevato deficit commerciale per gli Stati Uniti. Specularmente, per questi prodotti un’interruzione degli scambi con gli USA comporterebbe una maggiore perdita, in termini di flussi netti, per l’Europa.
Perciò, ragionando dal lato degli esportatori europei, abbiamo identificato un sottoinsieme di prodotti più esposti in quelli che negli ultimi tre anni hanno costantemente realizzato un surplus commerciale al di sopra di una certa soglia (1milione di euro per l’Italia e 10milioni di euro per la UE). I prodotti italiani venduti negli USA dal 2021 al 2023 che soddisfano questo criterio sono 1.139 su 4mila prodotti; nel 2023 hanno rappresentato circa un quarto del valore dell’export italiano e un terzo del rispettivo saldo commerciale verso l’extra-UE, poco più di 50 miliardi di euro, che equivalgono a più dei tre quarti del totale esportato verso gli USA. I prodotti europei che soddisfano lo stesso criterio di selezione sono di più in termini di numerosità, 1.360 su quasi 5mila prodotti esportati negli USA, e rappresentano poco più di un quinto dell’export europeo e la metà del saldo commerciale verso l’extra-UE; nel 2023 hanno superato i 375 miliardi di euro, più dei tre quarti del totale esportato verso gli USA.
La corrispondenza tra valori elevati di export e quelli di saldo commerciale dell’Italia con gli Stati Uniti, già rilevata, si rafforza per i prodotti identificati da un saldo commerciale superiore alle soglie definite.
Ai primi tre posti per surplus eccessivo ci sono gli stessi tre raggruppamenti di prodotti (macchinari, prodotti chimici e farmaceutici e mezzi di trasporto) sia per l’Italia che per l’insieme dei paesi UE, sebbene l’ordine differisca. Questi tre raggruppamenti di prodotti rappresentano per l’Italia più del 60% sia del valore che del saldo commerciale dei prodotti selezionati, mentre per l’insieme dei paesi europei pesano circa i tre quarti del loro valore e il 70% del saldo commerciale (grafico 7).
Considerando congiuntamente i due criteri, esposizione verso il mercato americano e saldo commerciale eccessivo, i prodotti che li soddisfano si riducono drasticamente a 48 per quelli di provenienza italiana e a 52 per quelli europei.
Per il sottoinsieme dei prodotti europei così individuati la rilevanza del mercato americano è relativamente superiore a quella che rappresenta per gli esportatori italiani. Infatti, nel 2023 gli esportatori europei hanno raggiunto quasi 30 miliardi di euro, pari a più del 70% di quello destinato ai paesi fuori dal mercato unico, che ha prodotto un saldo commerciale pari a 18 miliardi, sei volte superiore a quello raggiunto rispetto al totale dei paesi extra-UE. Il valore esportato dall’Italia è stato quasi di 7 miliardi, poco più del 62% di quello destinato ai paesi fuori dal mercato unico, e ha prodotto un saldo commerciale pari a quasi i tre quarti di quello extra-UE.
Nell’insieme dei prodotti europei a sei digit ci sono anche beni del settore agricolo mentre per quello italiano solo beni manifatturieri. Il comparto chimico-farmaceutico rappresenta la quasi totalità del valore esportato, l’83% di quello esportato dall’insieme dei paesi europei, mentre è poco meno la metà di quello italiano. In particolare, per l’export italiano un medicinale ormonale rappresenta il 70% del valore del comparto.
È importante notare che le dipendenze italiane ed europee sono identificate in molte produzioni differenti, ma esistono poche specializzazioni comuni che costituiscono gran parte del valore dei flussi selezionati. I prodotti comuni tra gli esportatori italiani ed europei di questo sottoinsieme sono soltanto 8, la quasi totalità del valore dell’export sia italiano (94%) che europeo (87%) appartengono agli stessi due comparti delle armi e dell’acciaio.
4.3 I prodotti strategici per gli Stati Uniti
Dalla diffusione del Covid-19 ai blocchi delle forniture del 2021 è diventato sempre più rilevante per le principali economie occidentali, specialmente per gli Stati Uniti e per l’Unione Europea, rafforzare la loro catena di fornitura soprattutto per le filiere definite strategiche, ovvero quell’insieme di settori che contribuiscono alla sicurezza, non solo economica, di una nazione. L’Amministrazione americana ha individuato un insieme di prodotti strategici,1059 a sei digit, che includono i principali settori manifatturieri. Non tutti i prodotti individuati sono esportati dall’Italia e dalla UE nel mercato americano: gli esportatori italiani ne vendono circa 700 mentre quelli UE poco meno di 1.000.
I prodotti strategici italiani destinati agli Stati Uniti rappresentano più di un quinto del totale dell’export italiano negli USA (17 miliardi di euro nel 2023). Un peso superiore hanno quelli venduti dall’insieme dei paesi europei, pari al 40% del totale dell’export negli USA (più di 200 miliardi di euro). L’insieme di questi prodotti ha generato un surplus commerciale sia per l’Italia, di circa 4 miliardi, che per la UE, poco più di 36 miliardi.
I due principali raggruppamenti settoriali, che rappresentano complessivamente più dell’80% del valore dell’export di prodotti strategici sia per l’Italia che per la UE, sono i prodotti chimici e farmaceutici (52% dei prodotti strategici italiani e più del 56% di quelli europei) e i macchinari (32% di quelli italiani e 26% di quelli europei; grafico 8). Diversamente dalle selezioni precedenti, non per tutti i comparti gli esportatori italiani e quelli europei hanno registrato un surplus commerciale. In particolare, il comparto dei prodotti petroliferi raffinati è quello che presenta il saldo commerciale negativo più alto per entrambe le economie; per la UE rilevante è anche il deficit commerciale nel settore della plastica e per l’Italia quello nei minerali non metalliferi.
Considerando tutti e tre i criteri, l’esposizione verso il mercato americano, surplus commerciale eccessivo e prodotti strategici per l’Amministrazione USA, i prodotti selezionati si riducono drasticamente a 7 per quelli di provenienza italiana e a 14 per quelli europei.
Per il sottoinsieme dei prodotti europei così individuati la rilevanza del mercato americano è relativamente superiore a quella che rappresenta per gli esportatori italiani. Infatti, nel 2023 gli esportatori europei hanno raggiunto quasi 26 miliardi di euro, pari a più del 70% di quello destinato ai paesi fuori dal mercato unico, che ha prodotto un saldo commerciale pari a 15 miliardi, 57 volte superiore a quello raggiunto rispetto al totale dei paesi extra-UE. Il valore esportato dall’Italia è stato più di 3 miliardi, il 69% di quello destinato ai paesi fuori dal mercato unico, e ha prodotto un saldo commerciale pari al 93% di quello extra-UE.
Per entrambi gli esportatori il comparto chimico-farmaceutico rappresenta la quasi totalità del valore esportato, con l’unica differenza che per le esportazioni italiane la maggior parte del valore è concentrata in un prodotto farmaceutico mentre per gli esportatori europei è distribuita su 10 prodotti chimico-farmaceutici. Infine, un solo prodotto della chimica organica è in comune per l’Italia e la UE, in base a tutti i criteri considerati.
Rispetto al complesso dei paesi membri l’export italiano è maggiormente diversificato, anche se si considerano criteri stringenti. I prodotti strategici americani sono più rilevanti sia in termini di varietà che di valore per la media dei paesi europei.
In generale, i prodotti chimici e farmaceutici europei destinati agli Stati Uniti appaiono quelli più a rischio, sebbene la presenza di legami produttivi attraverso imprese controllate negli USA da quelle europee e in Europa da quelle americane potrebbe essere un buon deterrente alla politica commerciale restrittiva da parte dell’Amministrazione Trump. Infatti, più del 70% dello stock di capitali investiti dalle imprese UE nei paesi extra-Ue è diretto alle imprese farmaceutiche americane; la quota è la stessa per le multinazionali farmaceutiche tedesche mentre quelle italiane arrivano a sfiorare il 90%. Gli Stati Uniti sono una destinazione rilevante degli investimenti delle multinazionali italiane anche nei settori degli altri prodotti manifatturieri (più del 50% di quelli extra-UE), degli alimentari e delle bevande, delle apparecchiature elettroniche e ICT (più di un terzo) e, infine, dei prodotti chimici e dei metalli di base (circa un quarto).