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Matteo Pignatti
Le politiche protezionistiche preannunciate dal neo presidente USA Donald Trump costituiscono un forte rischio al ribasso per le prospettive del commercio globale. L’abbandono o la riformulazione dei grandi trattati commerciali (TTP, TTIP e Nafta) e l’introduzione di tassazione all’importazione di merci potrebbero innescare ritorsioni da parte di altri paesi, via barriere tariffarie e svalutazioni competitive, con un effetto domino per l’intera economia globale.
La tendenza al protezionismo non è una novità, visto che costituisce una delle cause principali del rallentamento degli scambi mondiali. Dal 2008 al 2016 i paesi del G20 hanno implementato più di 4 mila nuove misure protezionistiche. Secondo il rapporto Global Trade Alert, il ricorso a nuove misure è aumentato di più del 50% negli ultimi due anni, registrando i livelli massimi dall’inizio della rilevazione nel 2009. I paesi membri del G-20 sono responsabili di circa l’80% di queste restrizioni.
Non stupisce quindi che negli ultimi cinque anni la crescita del commercio mondiale ha fortemente decelerato e l’intensità degli scambi globali (definita come il rapporto tra scambi e PIL) ha smesso di crescere, bloccandosi sotto il 25%.
La frenata del commercio, oltre all’ondata neo-protezionista, è dovuta a fattori strutturali, persistenti e connessi tra loro, come la normalizzazione della crescita cinese e degli altri emergenti, lo stop all’espansione delle catene globali del valore, il calo degli investimenti nei paesi avanzati (che ora danno segnali di recupero); ai quali si è aggiunta la forte caduta dei prezzi delle commodity (in risalita). È inoltre stata accompagnata, nei paesi avanzati, da un crescente sentimento anti globalizzazione, frutto della polarizzazione del tessuto economico e sociale.
All’origine di quest’ultima ci sono la globalizzazione stessa e, soprattutto, i cambiamenti tecnologici. Forze che hanno creato vincitori e vinti sia tra i lavoratori sia tra le imprese. Dazi e altre barriere commerciali, però, non sono la soluzione, anzi aggravano il problema: lo insegna la storia della Grande Depressione negli anni ‘30. Occorre, invece, creare le condizioni per una crescita solida, inclusiva e sostenibile. Irrobustendo, su scala nazionale, gli strumenti di supporto per le classi medio-basse e le misure a favore dell’innovazione; riattivando, a livello globale, il circolo virtuoso tra commercio estero e PIL; rafforzando, nei paesi con minori vincoli di bilancio, la spesa pubblica in investimenti e infrastrutture. E riscoprendo il ruolo centrale del settore manifatturiero, propulsore degli scambi con l’estero e dell’innovazione e attivatore di posti di lavoro qualificati e ben remunerati.
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